Tutto nasce dall’intervista di Luca Sofri, direttore de Il Post, rilasciata a Sergio Maistrello per Apogeonline, in particolare da questo passaggio sui ‘numeri’ del nuovo giornale on line di Luca:

(domanda)
Non fornisci numeri, ma ho una domanda sulle metriche. Come avete definito la tabella di marcia? Considerate soltanto i classici indici di traffico oppure tenete in considerazione le interazioni sociali nel sito e nei social network e le varie forme di lettura non convenzionale come i feed? Te lo chiedo perché non date l’impressione di cercare pagine viste a tutti i costi, finora.

(risposta)
Cerchiamo pagine viste, ma non a tutti costi. Comunque sì, sui numeri i miei metri sono strettamente pubblicitari: sull’apprezzamento e il funzionamento delle cose valutiamo cose più puntuali e frammentate al momento. Io non sono preoccupato del successo del Post come iniziativa, che per me sarebbe già sufficiente ora a esserne contenti, ma della sua capacità di sopravvivenza. E quella dipende dalle pagine viste.

Risposta che ha scatenato l’analisi di Massimo Russo: partendo dai dati certificati Audiweb (utilizzati dalla concessionaria di pubblicità per ‘vendere’ gli spazi agli investitori) si arriva a stime di massima sul potenziale introito pubblicitario de Il Post.

Sì, ma a quanto si può vendere? Il mercato è molto vario, e si vende a cpm, ovvero costo per mille impression. Si va dai 2 euro circa delle pagine di poco valore, ai 15 dei canali di pregio dei siti più quotati. Supponiamo che il Post sia trattato bene dagli inserzionisti e ipotizziamo che si venda a 7 euro cpm (mi sembra molto, ma meglio arrotondare per eccesso). A questi prezzi a luglio il massimo fatturato possibile potrebbe essere stato 2 milioni, diviso mille, per 7. Vale a dire 14mila euro. Il che su base annua fa 168mila euro. Aggiungiamo un po’ di adsense di Google, qualche sponsorizzazione, e si arriva a 200mila euro. Ma questa è la cifra nel caso il bacino sia venduto interamente. Ora, stasera (21:50) su 10 refresh della home non ho trovato nemmeno un’impression pubblicitaria venduta, ma solo autopubblicità (Liquida, del network Banzai). Supponiamo sia un caso, che in realtà il tasso di riempimento sia del 70% (numero molto alto, ma insomma, largheggiamo). Significa che invece di 200mila euro lordi l’anno stiamo parlando di nemmeno 150mila. Lordi.

Questo il ricavo pubblicitario IPOTETICO, insisto, cui vanno sottratte le spese, quelle reali, per pagare cinque persone più il direttore, lo spazio server, lo sviluppo, la manutenzione, la banda, e tutti i costi di esercizio.

Come ho avuto modo di osservare e qui, un punto debole del ragionamento di Massimo Russo sui numeri potrebbe riguardare il prezzo di vendita degli spazi. Spesso nelle startup editoriali non si fa leva sul traffico (in startup è ovviamente basso, non può essere una leva di vendita se non a regime, dopo circa 12 mesi… ecco un altro punto di discussione, quando vada valutato il successo di una iniziativa?), ma sull’interesse degli investitori iniziali ad esserci e a sfruttare l’impatto iniziale.

Oltre che dinamiche ‘personali’, come la stima che si può avere per chi guida l’iniziativa e dunque si può decidere di pagare spazi pubblicitari ad un prezzo fuori mercato. Questa potrebbe essere la strada scelta ad esempio da Vodafone, presente in maniera ‘pesante’ con i suoi banner in home page sin dal lancio.

E se tutti si ispirano al modello Huffington Post, ecco ‘Il Giornalaio’ Pierluca che ragiona proprio sui numeri di Arianna Huffington:
Secondo quanto dichiarato, il 2010 sarebbe finalmente l’anno, a cinque anni dal lancio, con ricavi positivi per la testata statunitense. In particolare emerge che l’Huffington Post è stato visitato da 24,3 milioni di utenti unici nel giugno 2010 e che la previsione di chiusura per quest’anno dovrebbe assestarsi intorno ai 30 milioni di dollari di ricavi. Se non vado errato significa orientativamente un dollaro all’anno di ricavi per ciascun lettore.

Come osserva Vittorio Zambardino, le iniziative editoriali internet “non mainstream” al momento fanno fatica. Perché con 15 mila utenti unici al giorno è difficile andare avanti. Si scontrano con i grandi ‘brand’ che dal cartaceo passano all’on line.

Io dico che è ancora presto per valutare: Dagospia fattura qualche milione di euro in pubblicità anche se qualcuno potrebbe osservare che non è esattamente un giornale. Il modello però è quello: un prodotto editoriale che punta ad una nicchia, che vende spazi pubblicitari non (solo) in base al traffico ma anche grazie alla capacità di Roberto D’Agostino di essere un trascinatore e, in qualche caso, riferimento per la comunictà business. E dopo qualche anno di lavoro.

Lo stesso Luca Sofri sulla discussione Friendfeed spiega:
Conti sbagliati, informazioni mancanti, valutazione precoce, ma ne riparleremo a tempo debito: ora non ce n’è nessun bisogno. C’è di che stare allegri, comunque, per chi si fosse sinceramente preoccupato.

Sono d’accordo sulla valutazione precoce e sulle informazioni mancanti (potrebbe essere il caso di integrarle?), sui conti sbagliati come detto le ipotesi di Massimo Russo sono solide analiticamente, ma forse non tengono conto delle dinamiche relazionali che un prodotto come Il Post può avere.

Un concorrente de Il Post partirà con una raccolta pubblicitaria di qualche centinaia di migliaia di euro grazie alla ‘squadra’ e al direttore, non certo grazie al traffico visto che per adesso si vendono spazi pubblicitari ‘sulla carta’ e il lancio è previsto tra qualche settimana.

Un po’ di fiducia nel futuro del giornalismo on line potrebbe non guastare, insomma.