E’ stato presentato giovedì a Milano il progetto Working Capital di Telecom Italia, presenti sul palco – moderati dal direttore di Wired Riccardo Luna – l’ad Telecom Franco Bernabè, l’advisor del progetto Gianluca Dettori (dPixel), oltre che Paolo Barberis, fondatore e Presidente di Dada, e Ivan Lo Bello Presidente di Confindustria Sicilia.

Piccola nota di colore: Google Italia spiega di aver autorizzato l’uso del lettering (font, colori, ecc) perchè condivide lo spirito dell’iniziativa, ma non ha comunque nessun coinvolgimento diretto o indiretto nel progetto.

Dal sito:
Working Capital è il progetto ideato da Telecom Italia per sostenere l’innovazione italiana e le iniziative imprenditoriali in ambito web 2.0 e nuova Internet, fornendo competenze, tecnologie e servizi a supporto della loro realizzazione, ed aiutando la crescita di una nuova, giovane generazione di imprenditori italiani.

Il progetto prevede un investimento da parte di Telecom Italia di cinque milioni di euro in servizi (niente liquidità), su due anni, divisi in due modalità: contratto di investimento (2-2,5 M euro) o di incubazione (2,5-3 M euro). Per il contratto di investimento sono previsti da 4 a 6 investimenti per un ammontare medio di 450.000 euro (range 150-750k euro), con conferimento a capitale di beni in natura come sevizi, uffici, coaching, ufficio legale e coaching di manager. Nel caso dell’incubazione si avranno 25-30 investimenti, con un ammontare medio di 90.000 euro (range 30-150k euro), con conferimento di beni in natura a fronte della cessione di opzioni sul capitale aziendale.

Fin qui la notizia. Adesso i commenti, anche a fronte di diverse chiacchierate fatte post-presentazione (la sala della Posteria era strapiena). La sensazione più diffusa è che l‘idea sia lodevole perchè in Italia manca la cultura del VC e ancora di più manca la cultura dei fondi di corporate venture capital (CVC). Bene anche il fatto che ci sia l’attenzione del top management.

Fine delle buone notizie, nel senso che a fronte di un’idea buona con attori competenti manca proprio quello che è l’elemento principale di un’iniziativa di questo genere: il capitale.

Già, perchè a fronte di parecchio lavoro (Working) rischia di mancare il vil denaro (Capital). Innanzitutto l’investimento complessivo, davvero misero se paragonato al fatturato Telecom (Stefano calcola uno 0,01%). Misero anche se si pensa che sarà spezzettato su circa 30 progetti e misero se si pensa che sarà solamente un conferimento di beni e servizi.

Al momento, più che un progetto di corporate venture capital, sembra un timido tentativo di valutare il funzionamento dell’ingranaggio e i potenziali ritorni.

Mi stupisce quindi che nessuno tra le numerose blogstar presenti e guru vari (ad eccezione del buon Quinta) abbia avuto la voglia e il coraggio di valutare davvero l’entità del progetto, chiarendo le cose come stanno: non si tratta di un progetto di CVC, ma di un’esplorazione molto molto timida di questo mondo. Forse la speranza di essere coinvolti in futuro nell’iniziativa (alla tetta di mamma Telecom ci si attacca sempre volentieri, no?) ha messo a tacere eventuali osservazioni critiche. C’è chi faceva notare che l’evento della Posteria e la campagna pubblicitaria ‘Ora tocca a te’ sui principali quotidiani vale quasi un anno di investimenti aggiuntivi 🙂

Chiunque abbia un’idea di come funzioni il mondo del venture capital, sa che il taglio medio dell’investimento di Working Capital è al limite dell’elemosina. E che in Italia esistono già iniziative che da anni affiancano le start-up con investimenti di maggior caratura, ad esempio Riello Investimenti (con qualche decina di milioni di euro) e Z-Cube (Zambon). Senza dimenticare le decine di incubatori che hanno un taglio medio dell’investimento ben superiore ai 90mila euro.

In fin dei conti secondo Bernabè in Italia il problema non è reperire i fondi… beh, a me il convegno ha lasciato l’idea di un maxi-spot Telecom Italia senza la valenza di un vero progetto di Corporate Venture Capital. Ho apprezzato tantissimo Paolo Barberis di Dada, quasi infastidito dal chiacchiericcio tanto da affermare che “le cose bisogna prima farle, poi se ne parla”.

O no?

UPDATE
Per fortuna, oltre a Stefano e al sottoscritto, anche qualcun altro pensa che ci sia troppo marketing rispetto al vil denaro investito.

Me lo chiedevo anch’io. La cifra per gli investimenti è minuscola, in due anni per investire quei soldi lì basta un gruppo di angels individuali o un piccolissimo fondo di private equity. Poi magari è vero, come mi sembra di capire abbia detto Bernabè, che l’ostacolo principale per le start-up non è la mancanza di soldi. Vi garantisco però che per trasformare un’idea (seria) in un business, il fatto che un fondatore debba distogliere tempo dal progetto per andare ogni 3-6 mesi a raccogliere soldi per finanziare la prossima fase di sviluppo è una significativa distrazione di energie che sarebbe più fruttuoso dedicare al progetto stesso. [Paola via FF]

Così oggi, in tempi di brutale crisi economica, il mito degli investitori californiani si è decisamente attenuato e se alcuni progetti italiani come Baia Network propongono a chi ha buone idee in Italia uno strumento per collegarsi con investitori oltreoceano, non deve stupire che Telecom guardi con estrema circospezione all’ipotesi di mettere del proprio per finanziare concretamente imprese innovative del paese. Detto questo, ed incassati i benefici in termini di immagine, forse un po’ meno natura e un po’ più euro non avrebbero guastato. [Mante su Punto Informatico]