Scrive Luca De Biase:
Secondo ComScore, il Cpm (costo per mille pagine viste) è una misura abbastanza disordinata. Nei giornali il Cpm in America, in aprile, era 6,99 dollari, nei portali 2,60 e nei social network 56 centesimi. Nello stesso tempo le pagine viste dei giornali erano 8,5 miliardi, nei portali erano 69,7 miliardi e nei social network 98 miliardi. Il fatturato era rispettivamente di 59,4 milioni di dollari, di 181 milioni e di 54,7 milioni.

ma soprattutto Luca si chiede Perché un mercato dovrebbe accettare queste differenze di prezzo e performance? Probabilmente occorre un’unità di misura più coerente e omogenea. Il tempo per utente potrebbe andare meglio?”.

Io credo che una risposta unica e immediata a questa domanda non esista. Internet è un medium, va bene, ma i milioni di sfaccettature che lo compongono non possono essere ignorati: un social network, un sito verticale e un portale non sono la stessa cosa.

Così come un quotidiano non è un settimanale e un quodiano locale è diverso da un quotidiano nazionale. E’ banale, lo so, ma senza questa premessa credo che tentare una risposta alla domanda di Luca sia difficile.

Le metriche di misurazione della pubblicità on line non possono e non devono essere univoche: abituati all Tv (con i suoi GRP) e ai media più tradizionali (quanti ‘occhi’ leggono un quotidiano, quante orecchie ascoltano un comunicato), a volte si fa l’errore di applicare il concetto di ‘vista’ anche su Web.

Eppure l’efficacia (che inevitabilmente influenza il prezzo finale praticato dall’editore) deve essere misurata in maniera diversa a seconda dell’obbiettivo: la vista di un banner fa branding e accresce la popolarità, ma una vendita di servizi si misura in fatturato (lead o sale) o al limite in traffico (attraverso il CTR).

Partendo sul presupposto che la maggior parte degli investitori on line voglia generare lead/sales/traffico e non fare branding, sui social network e sulle community in genere, il CTR è basso, per cui i prezzi sono molto inferiori.

Chi riesce a dimostrare di avere un pubblico reattivo (molti siti verticali, nella loro nicchia, hanno performance di molto superiori ai portali generalisti) riuscirà a spuntare dagli investitori un prezzo più alto.

Idem per chi riesce a convincere – possibilmente numeri alla mano – che la qualità del prodotto è superiore: in fin dei conti a parità di pagine viste, investire sul Sole24Ore o su Corriere.it ha implicazioni diverse, benchè siano due grandi quotidiani hanno le loro peculiarità che l’investitore deve saper sfruttare.

Tornando quindi alla domanda iniziale – perchè un mercato dovrebbe accettare queste differenze? – la risposta più immediata è quindi ‘perchè il mercato è fatto di tante nicchie‘. Non lo scopriamo adesso, ma probabilmente incrociando le moltissime variabili che influenzano il prezzo (non solo quelle esogene come le condizioni di mercato o il periodo – ma anche quelle dirette come il tipo di prodotto offerto e la qualità del pubblico di riferimento) una prima risposta alla domanda c’è.

Misurare il tempo? Una delle possibilità, valida secondo me solo se chi investe è interessato all’esposizione pura. E’ una delle metriche possibili, ma in fin dei conti se ci metto 5 minuti a leggere un articolo, non sto cinque minuti a fissare un banner. Raccontiamo all’investitore che il suo banner è stato visto per ben 5 minuti? Ovviamente no.