Interessante discussione quella che sta emergendo sul progetto CriticalCity e sui (mancati) micro- investimenti da parte di imprenditori italiani.

Tutto inizia con un post di Alberto Cottica, in cui sostanzialmente si dice che quando il progetto è stato presentato molti si erano detti disponibili a dare 10mila euro (non si può parlare di venture in questi casi, 10mila euro è poco più che un segnale di incoraggiamento a chi porta avanti il progetto), poi si sono tirati indietro.

Non bisogna sopravvalutare il ruolo del venture capital in un sistema per l’innovazione. Naturalmente il venture capital ci vuole e come. Solo che non è adatto a tutte le idee innovative, ma solo a quelle in grado di generare profitti in un orizzonte breve o medio – il che purtroppo esclude molte idee veramente visionarie e generative di ecosistemi, come Internet stessa che infatti è un progetto governativo. Nel percorso di CriticalCity il venture capital italiano ha giocato un ruolo – mi dispiace dirlo – peggio che inutile.
(il video del TechGarage 2009 con le promesse)

Dal post è nata una discussione, sviluppatasi prevalentemente su Friendfeed, in cui dal progetto si è passati anche a discutere del venture capitalism nel nostro Paese.In particolare l’intervento di Marco Magnocavallo, una delle persone inizialmente disponibili a investire, chiarisce un paio di aspetti:
I ragazzi di Criticalcity ancora non avevano le idee chiare sulla strada da prendere: profit/noprofit. Hanno passato i due mesi successivi lavorando a business plan e timeline di sviluppo del progetto, sono arrivati a un business plan che prevedeva un investimento molto più alto rispetto a quanto raccolto a Roma e ancora non era chiaro se fosse tutto noprofit o meno. Alcuni tra quelli che avevano alzato la mano si sono tirati indietro, sì, questo è vero. Altri sono rimasti ma alla fine, con i soldi rimasti, non si riusciva a coprire per intero l’investimento necessario. A quel punto ho dato il suggerimento di pensare a una versione “ristretta” di business plan che potesse portare solo al rilascio della nuova versione di CriticalCity. Questo business plan ridotto, se non ricordo male, non è mai stato finalizzato…

La terza ‘puntata’ è l’intervento di Augusto Pirovano, amministratore delegato di CriticalCity, che scrive:
Il 10 luglio veniamo invitati al VC Hub, un meeting a porte chiuse della comunità dei venture capitalist italiani. Qui, di fronte a molti dei presenti al TechGarage, presentiamo ancora una volta CriticalCity come progetto sociale no-profit, scatenando un piccolo putiferio.  Ci viene chiesto “ma perché vi ostinate a rifiutare il capitale privato?”  “Davvero credete che il mondo del venture sia Il Male?”.   Noi ovviamente non lo crediamo, ma siamo abbastanza convinti che un investimento privato non sia coerente con il nostro progetto. Sempre in quell’occasione, in un momento di pausa , Lorenzo Franchini, uno degli investitori in questione, ci dice chiaramente – pensando di interpretare le intenzioni anche degli altri – che loro non intendono in nessun modo offrirci le quote come finanziamento a fondo perduto.  Se vogliamo creare una srl sono interessati ad entrare nel capitale, altrimenti non se ne fa niente.

Al di là di come sia andate davvero le cose (ripeto: 10mila euro non può essere considerato un investimento da VC, probabilmente nemmeno da business angel), credo sia un esempio significativo di qual è lo stato del VC in Italia: piccolo rispetto al potenziale, timido, a volte legato più a dinamiche personali che non ai business plan.

Qualcuno sa rispondere a questa semplice domanda? Quante sono le start-up italiane finanziate da VC che oggi vivono e stanno in piedi da sole. A me ne vengono in mente una decina, non di più. Non è certo solo colpa dei VC, sarebbe stupido pensarlo. Ho visto business plan con curve di crescita ipotetiche a 45 gradi costanti per anni e non mi stupisco se chi investe soldi propri rifiuti di finanziare certe imprese. Ho però anche visto idee innovative che avrebbero solo bisogno di una ‘spintarella economica’ per decollare e diventare grandi, piccole imprese guidate da menti eccelse che possono mettere lavoro, passione, capacità ma che avrebbero bisogno di un supporto economico per affermarsi a livello europeo o globale.

Ecco, di questo dobbiamo iniziare a parlare davvero: creare un sistema che faciliti l’incontro tra investitori e startupper, tra piccole imprese e grandi capitali, con un set di regole chiare e con processi trasparenti. Qualcuno già lo fa, ma rispetto al potenziale che si respira è ancora troppo poco. Ce la possiamo fare!

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