Puntuale ogni anno – quasi fosse diventata un appuntamento fisso – la riflessione sul futuro dei blog, sulla loro (ennesima) morte e la loro (altrettanto ennesima) risurrezione.

Un tema che, per quanto trito, evidentemente appassiona se molti di noi continuano a contribuire non appena una scintilla di discussione fa capolino in Rete. E il tag #risorgiblog è diventanto un trending topic su Twitter.

Giovanni ha riassunto magistralmente il #risorgiblog: i punti di vista sono molteplici, tutti di buon senso e molti condivisibili, per cui il mio contributo alla discussione non può che aggiungere poco al ‘cuore’ del tema. Ma ci provo.

Secondo me i blog, intesi come forme di espressione personale e aggregazione di contributi esterni, sono sempre esistiti. Li chiamavamo diversamente, ma c’erano già.

L’essenza del Web è facilitare il contatto con persone anche distanti, promuovere la condivisione e stimolare la discussione. Lo facevamo sulle BBS agli albori dell’Internet italiana, lo abbiamo fatto sui forum passando per i newsgroup, lo continuiamo a fare sul nostro blog personale o sulle millemila piattaforme social che nel frattempo hanno preso piede.

Quello che credo non sia in discussione sia l’essenza del blog: necessità di comunicare sé stessi o gli argomenti che ci stanno a cuore ad un pubblico più o meno vasto. Le sfumature possono diventare molteplici, ovviamente: cerco un pubblico per affermare me stesso come ‘star’, cerco un pubblico per capire cosa pensa delle mie opinioni, cerco un pubblico per farmi conoscere come professionista e avere più opportunità lavorative, cerco un pubblico per incrementare traffico e quindi avere un introito economico.

In tutti i rivoli, però, il fattor comune è la ricerca di un pubblico a cui comunicare qualcosa. Non credo di conoscere qualcuno che blogga in pubblico ma non vuole pubblico, non credo di conoscere qualcuno a cui avere una platea non faccia piacere. Se li conosco, non hanno uno spazio di condivisione aperto e pubblicamente accessibile. Non tutti riescono ad avere un pubblico, anzi relativamente pochi polarizzano l’attenzione, ma la necessità di avere un pubblico rimane costante indipendentemente dal successo che un blog può avere.

In estrema sintesi, la socializzazione dell’ego è un fenomeno in continua crescita. Se questo bisogno di si conferma costante nel corso degli anni, quello che cambia, anche rapidamente, è il contenitore. I pensieri che viaggiavano sulla gerarchia it.* si sono spostati al blog personale, poi alle piattaforme social più diffuse e probabilmente assumeranno nei prossimi anni forme che oggi non siamo in grado di prevedere con sufficiente precisione.

I blog sono morti? No, per blog intendiamo un contenitore di pensieri. Blog oggi è troppe cose insieme per dire che il blog è morto. Il blog è cambiato, nei tempi e nei modi della comunicazione, ma la sua morte credo sia ancora davvero lontana.

2 pensiero su “I blog sono morti. O forse no #risorgiblog”
  1. Mi sembra interessante il concetto di socializzazione dell’ego. Ritengo però che a questo si debba anche aggiungere il ruolo non secondario che ha avuto, in appoggio a questa “egomania”, la brevità che di solito contraddistingue i popolarissimi Twitter e Facebook. Per generalizzare un po’ brutalmente, direi che scrive di più, sempre più di se stessi e in maniera sempre più contratta, insomma.

  2. per brevità intendi lo ‘spazio’ a disposizione? se sì, concordo con l’analisi: in un mondo sempre più rapido, abbiamo poco tempo per leggere e scrivere, ci interessano più le didascalie degli articoli lunghi e mandiamo più volentieri sms di quanto non si facciano telefonate da un’ora. la snack generation insomma!

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